La seconda vita di Luis Enrique, come uomo e come allenatore

L'uomo che cammina sui pezzi di vetro di una vita che gli ha riservato il più indicibile dei dolori, oggi tiene addosso una luccicanza speciale, un'aura celeste, una stella cadente che non cade e non cadrà mai più e se ne sta lì a indicare l'inizio e la fine, la distanza che li separa, il senso di qualcosa, chissà. A guardare e riguardare le immagini della notte di Monaco, ci si accorge che Luis Enrique - mentre ride, libera la felicità, salta e abbraccia i suoi cavalieri - non è mai solo. C'è il contorno di una piccola ombra che lo affianca. È quello di Xana, la figlia che ha perduto nel 2019. Non aveva ancora compiuto dieci anni. Quel contorno così delicato ma così definitivo, custodisce un vuoto che Lucho in questi anni di assenza ha provato a riempire. Lo ha fatto con l'amore dei padri, che non hanno cordoni ombelicali ma sguardi in cui riconoscersi, con la carezza del ricordo che diventa unghiata a ribadire la ferita, con l'inguaribile nostalgia di tutto quello che lui, la moglie Elena e gli altri figli Sira e Pacho - non hanno vissuto insieme a Xana. Quando Xana se n'è andata, Luis Enrique aveva quarantanove anni. Era un allenatore di successo, da meno di un anno sedeva sulla panchina della nazionale spagnola. Aveva già vinto abbastanza per sentirsi appagato, aveva vinto ancora poco per sentirsi compiuto. A brillare nella bacheca era la Champions League del 2015, quando alla guida del Barcellona di Messi e Neymar aveva battuto la Juventus e conquistato la coppa più ambita. Quella sera, sul prato di Berlino - ed è l'immagine che va in loop in queste ore - insieme a Xana aveva piantato una bandiera blaugrana. Siamo davvero felici tre-quattro volte nella vita e quella per Luis Enrique, ci sia lecito supporlo, è stata una di quelle volte. Tutto era ancora futuro. Ed è stato quando il futuro per la piccola Xana ha smesso di essere un'ipotesi che Lucho si è fermato, è sceso dalla giostra, ha cercato altrove, negli affetti di una famiglia ferita a morte dal dolore, il tempo di un respiro che non avrebbe potuto più essere quello di prima. Quando ne ha preso coscienza, è tornato ad allenare. Sarebbe ora banale ricercare nel percorso fatto da Luis Enrique in questi anni senza Xana la traccia di una nuova vita, o pensare - persino peggio - che il calcio l'abbia in qualche modo risarcito per quello che la vita gli ha tolto. Ha detto Lucho ieri sera a Monaco, quando ancora nel cielo ballavano i coriandoli della festa in corso e mentre stringeva forte i suoi ragazzi, che "Xana è sempre con me, è la stella della nostra famiglia"., ha aggiunto che "si vive e si muore" che una vittoria o una sconfitta nulla avrebbero cambiato, "non cambia niente" ha ripetuto con addosso la maglia con il disegno stilizzato - lui, lei, un papà, una figlia, un prato, la bandiera - dove non si celebrava una vittoria, ma la vita stessa. Non c’è stata nessuna esibizione della sofferenza, da parte di Luis Enrique, c’è stata invece sofferenza taciuta in ogni suo sorriso sghembo, nei capelli spettinati dalla fatica e dalla gioia, in quel favoloso viso di rughe feroci che cercano e trovano residenza negli uomini che hanno vissuto. Scontornato in un profilo spigoloso e anche ruvido, dove tuttavia in ogni ombra si celava il luccichio di una dolcezza che non si può dire da dove arrivi, Luis Enrique - dopo la morte di Xana - è tornato, a cinque mesi dalle dimissioni, ad allenare, a fare il suo lavoro, a insegnare come si sta in campo a ragazzi di vent'anni, l'età verso cui oggi correrebbe incontro sua figlia. Da ct della Spagna ha preso decisioni dure, come quella di allontanare al suo ritorno il collega che l'aveva sostituito, è andato allo scontro con giornalisti per questioni di calcio, è uscito di scena da un Europeo con una nobiltà d'animo - ricordate lo stile con cui accettò l'eliminazione nella semifinale per mano dell'Italia? - che ce lo ha reso speciale, ha chiuso il suo mandato in nazionale con un ottavo di finale perso ai rigori contro il Marocco, è andato infine a sedere, due anni fa, sulla panchina dorata del Psg. Il club più ricco del mondo, il club che però non ha ancora un posto nel mondo. Forte di un'idea di calcio che gli viene universalmente riconosciuta - così giocano le squadre di Luis Enrique - l'asturiano che nella vita non ha mai scelto scorciatoie, ha asciugato la squadra dall’orpello di campioni che calamitavano la luce, ne ha cercato l'essenza, senza opporsi - anzi facilitando - la partenza di un re senza corona come Kylian Mbappè. Come tutti i visionari, Luis Enrique non ha visto solo un orizzonte, ma quello che di più prezioso l’orizzonte contempla, ovvero il futuro. È seguendo il fuoco di un domani che ha vinto oggi. È per questo - o almeno così ci piace pensare - che la Champions al Psg sia un premio per quanto Luis Enrique ha seminato, per il futuro coltivato di talenti ventenni come Desiré Douè e come Senny Mayulu, per il coraggio nel vedere la gloria dove fino ad un attimo fa c’era solo giovinezza. È un premio che nulla aggiunge e nulla toglie alla vita di quest’uomo, ma consegna alle nostre che guardiamo una piccola verità da proteggere, quando il pallone tornerà a rotolare da qualche altra parte e quella di Monaco diventerà la notte di un padre, di una figlia e di come i loro contorni - nell’attimo esatto di un dolore che non finirà mai - siano diventati gli stessi.

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