Da senzatetto di 180 kg all'Nba. Ma la favola di Biggie non terminò con il lieto fine

Per tutti era "Biggie". Perché grosso lo era davvero. A un certo punto era arrivato a far salire l'ago della bilancia oltre i 180 chilogrammi. Caleb Swanigan è stato un lampo, un attimo e via, lasciando però tracce indelebili del suo passaggio su questa Terra. Perché era un gigante buono, in fondo. Al netto di quanto aveva passato, vissuto, l'essere arrivato sino alla Nba fa parte della categoria miracoli. Dire che è cresciuto in povertà è l'understatement del secolo. Avrebbe firmato per essere povero. Sei povero quando hai quattro spicci in tasca. Lui nemmeno quelli aveva. Viveva per strada, per lungo tempo sotto un ponte nello Utah. Aveva cinque fratelli, nessuno di loro in grado neppure di finire il liceo, tre finiti in carcere. Caleb sarebbe poi diventato il quarto. Il padre Carl si faceva di crack (morì quando Caleb aveva 14 anni), toccava a mamma Tanya crescere i sei figli, tra lo Utah e l'Indiana, per strada o in qualche rifugio per senzatetto. Nel corso di questa gioventù bruciata - suo malgrado - il pover Caleb frequentò una dozzina di scuole elementari. In prima media sfiorava già il metro e novanta ma pesava più di 160 kg. Non del tutto colpa sua, la predisposizione genetica lo aveva fregato in partenza. Al momento della morte suo papà pesava 230 kg. La sua ancora di salvataggio ha un nome e un cognome: Roosevelt Barnes. Quando Caleb si trasferì a Fort Wayne, nell'Indiana, venne adottato dall'agente, amico di famiglia. Barnes non lo fece come investimento in chiave cestistica, ma perché teneva veramente al bene del ragazzo, non mirava al profitto. La prima mattina nella nuova abitazione, Roosevelt disse a Swanigan di prendere un po' di cereali prima di andare in palestra. Il ragazzo allargò a dismisura il concetto di "po'", versando in una marmitta l'intera confezione - ovviamente quella extra large - di Kellogs Special K e innaffiandola con un gallone di latte, l'equivalente di circa 3,7 litri. "Cosa fai?" gli disse Barnes. "Mi hai detto di mangiare i cereali" rispose lui. "Sì, ma non tutta la scatola!" la replica del padre adottivo (ci vollero tre anni per completare le pratiche ma alla fine l'operazione andò in porto). Barnes capì che c'era parecchio da lavorare sul regime alimentare di Caleb. Swanigan - sotto la supervisione di Barnes - si mise in riga. Perse peso, divenne una stella alla Homestead High School di Fort Wayne, al punto da essere selezionato nel suo ultimo anno per il prestigioso McDonald's All American (l'All Star Game dei liceali) e guadagnarsi il titolo di Mr.Basketball nello stato dell'Indiana, dove la palla a spicchi è religione ed essere eletto il numero uno tra gli Hoosier ti rende immortale tra quei confini. Grazie a lui Homestead vinse addirittura il titolo statale (per rendere l'idea, lo stesso che conquistò la Milan High School nel leggendario film "Colpo vincente"). Al college rimase a casa, accettando l'offerta di Purdue. Al momento del debutto coi Boilermakers il suo peso era sceso a 120 kg. Oltre al basket, c'era anche il football. Prima di accasarsi a Purdue, Biggie aveva provato con la leggendaria Alabama di coach Nick Saban. “Ma non gli piaceva sporcarsi e odiava il caldo - raccontò Barnes, che gli aveva procurato un provino con i Crimson Tide - Era il perfetto tackle di sinistra nella linea offensiva. Quando Saban lo vide rimase a bocca aperta. Caleb si piazzò con una mano a terra, la posizione di partenza del tackle, ma quando partì l'azione rimase immobile. Gli dissi che se non aveva voglia d'impegnarsi potevamo anche andarcene a casa. La temperatura era attorno ai 40 gradi...". Da quel giorno il basket divenne il suo unico obiettivo. La cosa che più di ogni altra lo distingueva era l'etica del lavoro. Coach Matt Painter era solito chiedere ai suoi scout quando gli segnalavano un liceale da tenere d'occhio, "Ma s'impegna in allenamento come Biggie?". Sin qui è una storia da film: da homeless a Mr. Basketball. Ma manca il lieto fine. Anzi, l'epilogo si trasformerà in tragedia. La favola continua con l'approdo in Nba, grazie a Portland che lo scelse con il numero 27 al draft 2017. Essendo uscito dopo due soli anni di università, Caleb non si era laureato. Ma lo fece durante la sua prima stagione con i Blazers, dimostrando d'aver per la testa altro oltre al basket. E in effetti la carriera Nba non durò molto. Biggie giocò poco nella sua prima stagione, finendo con l'essere relegato in G-League. In estate venne ceduto ai Kings, dove però disputò la miseria di 10 partite. Sacramento lo rispedì al mittente. I Blazers avevano disperato bisogno di un lungo per via degli infortuni a Jusuf Nurkic e Zach Collins. Era il gennaio 2020. Poco dopo il mondo si fermò per il coronavirus. I giocatori di Portland si trasferirono in massa in Florida per allenarsi nella bolla di Orlando, dove poi sarebbe ripresa la stagione. Caleb informò la squadra che ci sarebbe stato anche lui. "C'erano dei segnali che la dirigenza ignorò - disse poi un membro dello staff dei Blazers - A nessuno importava della salute di Biggie. Avremmo dovuto fare di più per aiutarlo. Ricordo gente che diceva 'Speriamo non si presenti così risparmiamo i soldi del suo stipendio'". Finì proprio in quel modo. Swanigan non andò a Orlando, licenziò il suo agente, salì in auto e attraversò gli States con la fidanzata. Ma nessuno sapeva che fine avesse fatto. L'otto maggio 2020 iniziò a postare messaggi criptici sui social. Il giorno dopo cancellò gran parte dei suoi account. "Molte persone dello staff dei Blazers riferirono l'accaduto ai loro capi, che gli dissero che si sarebbero mossi per verificare che Biggie stesse bene", raccontò lo stesso impiegato della squadra dell'Oregon. Qualche tempo dopo, nel dicembre 2020, dopo apparve una foto segnaletica di Caleb. Era stato arrestato nell'Indiana durante un controllo di routine. Nella sua auto la polizia rinvenne un chilo e mezzo di marijuana e 3.415 dollari in contanti. Venne condannato a 6 mesi con la condizionale. Ma la cosa più inquietante dello scatto era l'aspetto di Biggie, ingrassato a dismisura. Le sue cattive abitudini alimentari tornarono a emergere. D'altronde era stato abituato così sin da bambino. Quando non hai un centesimo in tasca, il problema non è cosa mangiare, ma trovare qualcosa di cui cibarti. E allora poco importa se è un gelato, una pizza, qualsiasi tipo di junk food. Basta mandar giù qualcosa. "Crescendo la mia preoccupazione era quella: da dove sarebbe arrivato il prossimo pasto" raccontò un giorno Biggie. La sua fu una caduta verticale. Due anni dopo la fuga da Portland, Caleb morì in un ospedale di Fort Wayne. "Cause naturali", il motivo del decesso sul certificato. La vita gli aveva presentato il conto, troppo salato. "Ha toccato l'esistenza di chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo" le parole di coach Painter. "Era un gigante gentile, aveva un'anima buona" disse uno dei suoi fratelli al funerale. "Non sono tipo da patatine, mi piacciono i dolci, in particolare la cheesecake" era solito dire Biggie. Forse è bello ricordarlo con questa frase. Dolce, come lui.

Da senzatetto di 180 kg all'Nba. Ma la favola di Biggie non terminò con il lieto fine

La triste parabola di Caleb Swanigan, cresciuto sotto un ponte nello Utah, salvato da un agente sportivo buon samaritano e arrivato in Nba. A 25 anni sembrava un professionista fatto e finito, poi però...

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